La sofferenza dell'intelligenza
Ricordo un mio vecchio amico, uno di quelli un po’ alla buona, pochi pensieri per la testa e tanto buon umore, a cui bonariamente, tra il serio e il faceto, dicevo “beato a te che non capisci un c…zo”. Era un mio modo, piuttosto rude, per restringere in una frase quello che pensavo di lui: una persona che prendeva la vita con grande leggerezza, senza mai farsi troppe domande ne troppi problemi. Una mente perfetta a suo modo che, proprio in virtù della sua natura naif, non sarebbe mai andata incontro a fenomeni distorsivi come l’ansia o la depressione. E così infatti è stato. Quello che non sapevo è che quella che io avevo riassunto in una frase che, a un certo punto era diventata più uno sfottò che altro, aveva delle solide basi scientifiche. Pare infatti che le persone con più alto quoziente intellettivo siano quelle più inclini ad andare incontro a disturbi dell’umore nel corso della loro vita. Questo è un risultato di una indagine dell’università della California che ha rilevato come, su un ampio campione, i disturbi dell’umore abbiano un’incidenza più alta del 25% sulle persone con QI alto (superiore a 132).
Intuizioni
Insomma la mia intuizione era corretta. Ma perché le persone con maggior intelletto che, per assurdo, dovrebbero anche essere quelle in grado di leggere la vita nella maniera più corretta, sono in realtà quelle più propense ad ammalarsi di ansia e depressione? La risposta che psichiatri e psicologi danno è legata alla loro maggior sensibilità ed alle risposte sovradimensionate che danno agli eventi. In altre parole chi è più intelligente da una parte fa molto più caso a quello che gli succede intorno rispetto agli altri, e dall’altra ci rimugina molto di più sopra, con una forte dose di pensieri ed elaborazioni che possono sfociare nell’ossessione. Da lì poi nascono i suddetti fenomeni di ansia e depressione. L’intelligenza dunque può essere una lama a doppio taglio soprattutto quando non riusciamo ad incanalarla all’interno di attività creative o produttive utili. Quando ciò non avviene quello che accade è che finiamo per usarla per loop mentali in cui c’è un inizio ben definito ma non si trova mai la fine, perché un pensiero non viene mai del tutto chiuso e da esso se ne generano altri dieci. Per avvantaggiarsi della propria intelligenza (chi ce l’ha), senza diventarne schiavi e senza rischiare che ci si ritorca contro, può essere molto utile la meditazione. Attraverso l’esercizio meditativo infatti l’individuo impara a concentrarsi sul tempo presente capendo un punto fondamentale ovvero che noi non siamo i nostri pensieri. Abbiamo per tanto creduto che noi fossimo i totali artefici di ciò che la nostra mente genera, ma non è così. Alcuni pensieri sono creati e manovrati da noi, ma altri, tanti (soprattutto quelli legati alle paure) si sviluppano nella nostra mente in maniera del tutto spontanea, e l’unico modo per far sì che non diventino fonte di sofferenza psicologica è imparare a discostarsi da essi, riconoscerli, accettare e capire che ci sono, ma senza aggrapparcisi. Quando impariamo a “guardare” i nostri pensieri, senza aggrapparci a loro come un fantino incapace si aggrappa ad un cavallo fuori controllo, quando riusciamo a fare questo, scopriamo come quei pensieri, quelle paure che fino a un secondo prima affollavano la nostra mente, ad un certo punto vanno via da soli. Scompaiono.
Lame
Sembra un esercizio facile ma non lo è. Serve pratica. E gli intelligenti fanno più fatica a raggiungere risultati tangibili perché, per natura, loro sarebbe portati a super elaborare quei pensieri. Non sanno lasciar perdere. L’intelligente vive di pensiero, se ne nutre, ma è un nutrimento a volte tossico a cui bisogna imparare a dare la giusta importanza perché, come tutte le lame a doppio taglio, i pensieri possono essere utili per capire il mondo di oggi e creare quello di domani, ma possono anche farci male quando sono loro a controllare noi, e non noi a controllare loro. Subdoli.