Io (mi sa che) odio i social network.
Lo so che è troppo autoreferenziale e forse nemmeno troppo corretto da un punto di vista semantico iniziare un discorso con la parola “io” ma… chi se ne frega. Questo sarà un post con cui voglio andare a ruota libera. Uno “sfogone” di quelli da lettino dello psicanalista o da chiacchierata con un vecchio amico dopo 3 bicchieri di vino. Io (mi sa che) odio i social network. Nella migliore delle ipotesi mi hanno illuso e deluso, nella peggiore (ma forse sono troppo negativo in questo momento) hanno finito per rovinarci la vita.
Dovevano renderci tutti più vicini. Lo hanno fatto solo all’inizio quando ognuno di noi, tramite Facebook, è riuscito a mettersi in contatto anche col compagno di banco delle elementari che non vedeva da 30 anni. Ma è stata solo una illusione iniziale. Oggi siamo così presi a controllare i like alle nostre foto su Instagram che saremmo in grado di NON accorgerci di un aereo che precipita a pochi metri noi; figuriamoci poi se la “social dependency” lascia spazio al dialogo con chi ci sta affianco, per guardarsi negli occhi, capirsi, intendersi. Zero totale. Ponti chiusi.
Deluso
Dovevano aiutarci a capire il mondo grazie ad una maggiore circolazione delle idee. È finita che Facebook ci racconta, tra le varie cose, che la Terra è piatta! Alla faccia di Galileo, della NASA e dei Poteri Forti che ci vogliono convincere che viviamo su Pianeta sferico. Illusi!
Dovevano aiutarci a conoscere meglio noi stessi. È accaduto l’esatto contrario. Viviamo sulla base del giudizio che gli altri hanno di noi stessi e spesso questi “altri” non sono nemmeno persone che ci conoscono bene. Sovente si tratta di perfetti sconosciuti che scrollando lo smartphone finiscono sui nostri profili Facebook, Instagram e TikTok e che, coi loro complimenti o viceversa improperi, finiscono col condizionare il nostro umore e spesso anche le nostre giornate. Non ci guardiamo più allo specchio per capire chi siamo e cosa vogliamo essere: lasciamo che a dettarci la linea siano le tendenze del momento, i commenti di chi ci segue. E così abbiamo ceduto in outsourcing la nostra vita ad un algoritmo. Viviamo la vita degli altri (o almeno vorremmo): dei nostri follower o dei personaggi famosi di cui noi siamo follower, provando buffamente ad imitarli. Non abbiamo più idea di chi siamo e dove stiamo andando, ma conosciamo benissimo il profilo migliore per farci i selfie su Instagram. Tutto è fatuo. Progetti, parole, sentimenti e pulsioni durano il tempo di un post. E proprio come accade per i nostri post sui social il nostro incubo più grande è che nessuno si fermi a guardare questi progetti, queste parole, questi sentimenti, queste pulsioni, scrollando la propria bacheca.
Aspettative
I social avrebbero potuto essere strumento di conoscenza, di democrazia delle idee, un luogo dove provare a comprendere, ogni giorno di più, questo pezzo di universo che chiamiamo mondo. E invece l’umanità evoluta (o sedicente tale), quella che può permettersi smartphone e connessioni dati flat, ha scelto, non so quanto volontariamente, di trasferire vite e relazioni sul cloud. Prima o poi, però, ci accorgeremo che vite e relazioni non sono entità “digitali” ma “analogiche, entità piene di sfumature che non possono essere mappate in post, una foto, un meme e che vivono (grazie al cielo) a prescindere dai like che andranno a ricevere. Prima o poi, ne sono certo, prenderemo tutti coscienza di questo “effetto collaterale” dei social network. È un processo di consapevolezza collettiva che però richiede ancora del tempo per giungere a maturazione. Speriamo non troppo tempo. Il rischio infatti è quello di svegliarci tutti un giorno fuori dal tunnel della social dependency ma più soli e irrisolti di quando ci siamo entrati.