Intro

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia
e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Lentamente muore
chi fa della televisione il suo guru.

Lentamente muore
chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia l'incertezza
per la certezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di sfuggire dai consigli sensati.

Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non fugge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Lentamente muore
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare.
Lentamente muore
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna
o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che
essere vivo richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.

Premessa

Non sono religioso, anzi a dirla tutta mi definisco ateo, eppure sono convinto che ognuno di noi abbia bisogno nella vita di un suo “Vangelo” o “Corano”, o come preferite chiamarlo, che sia esso realmente un testo religioso, o i versi di una canzone del proprio cantautore di riferimento, o gli articoli di una legge sociale o morale che sia.

Ebbene questi versi di Martha Medeiros, spesso erroneamente associati a Pablo Neruda, hanno sempre rappresentato per me una sorta di direzione scritta nelle stelle da seguire lungo i percorsi, mutevoli, della mia vita. Ed il bello delle stelle, proprio come le parole senza tempo di una poetessa, è che le ritrovi sempre ovunque. Basta alzare lo sguardo e son sempre la, che tu sia in Italia, alla Canarie, a Dubai o in Bulgaria (e non ho citato località a caso).

Non ricordo esattamente l’età che avevo la prima volta che le ho lette ma, quello che so dirvi, è che attraverso un processo involontario di appropriazione, queste parole sono state uno dei tanti mantra a cui ho fatto costantemente riferimento nella mia vita.

Ricordo però che, mentre le leggevo, si alternavano in me il senso di stupore di fronte alla bellezza del testo a quello di “ansia”. Un’ansia positiva però, in quanto non legata alla paura quanto invece alla smania di vivere.

Queste parole mi hanno insegnato che la vita non è un dono, come dicono i cristiani, ma innanzitutto un dovere nella misura in cui “dobbiamo” dar valore ad ogni singolo momento di questo nostro percorso terreno.

Forse per questo, sin da giovanissimo, ho lasciato le certezze e l’agio in cui vivevano i mei coetanei per iniziare a girare il mondo e a lavorare in giro per il mondo, vivendo sempre la vita con un ardore che mi fa pensare, in termini di immagine mentale, ai macchinisti delle vecchie locomotive a vapore che, sporchi di fuliggine, si affaticano a riempire di carbone la caldaia che permette al pesante treno di correre senza mai fermarsi.

Fuoco da ardere

Ecco, io, in estrema sintesi, mi sento quel macchinista lì, e quel furore nell’aggiungere legna da ardere l’ho applicato sempre a tutte le mie passioni che si trattasse di lavoro, di rapporti personali o di interessi altrettanto personali.

La “tiepidità” è una temperatura che non mi è mai appartenuta ma, non vi nascondo, che vivere con tale furore ha i suoi pregi ma anche i suoi svantaggi; il pregio è legato a quel senso di profonda soddisfazione che si prova quando il proprio entusiasmo, la propria fame, diventano virali e contagiano le persone intorno. Quante volte, soprattutto nel lavoro, mi è capitato di ritrovare in qualche mio collaboratore quella estrema propensione al miglioramento ed all’apprendimento continuo indispensabili per essere capaci di proporre un prodotto di qualità in un mercato altamente competitivo.

Allo stesso tempo però si prova una certa dose di frustrazione quando non ritroviamo nel lavoro come nei rapporti personali, lo stesso nostro vigore, in chi ci circonda.

Lì inizia la parte difficile perché, inevitabilmente, alla frustrazione si aggiunge il dubbio di aver perso tempo e, per uno come me, il solo temere di “perdere tempo” è un qualcosa di devastante.

E la fotografia?

È lì che entra in gioco la fotografia… Già, proprio lei. Leggendo sin qui il post è probabile, ve lo concedo, che starete pensando “Ok Roberto, tutto molto bello, ma perché parli di questi anfratti d’anima su un blog di fotografia invece che sul lettino di uno psicanalista?”.

La risposta è molto semplice: la fotografia è sempre stata per me la cartina tornasole per poter discernere i momenti da ricordare da quelli che potevano tranquillamente finire nel dimenticatoio.

Se un momento, un panorama, un ritratto, uno sguardo, un’espressione, un colore, un gioco di luci… Se qualcuna di queste cose ha meritato uno scatto della mia reflex, significa che in quell’istante ho ritenuto di volergli regalare una qualche immortalità.

La fotografia mi ha permesso di fermare il tempo, non più inteso come intervallo di apertura dell’obiettivo, ma come infinito; ogni volta che un pezzo di vita finisce su pellicola lo rendiamo eterno e per questo immune a quella morte di cui parlano i versi della poesia.

Così la fotografia diventa anche una sorta di riscatto rispetto a quella frustrazione di cui parlavo prima.

I progetti falliti, a prescindere dalla loro natura, lavorativa e non, ritornano ad avere pieno senso dentro di me se a loro ho voluto associare una fotografia.

Se l’ho fotografato vuol dire che non è stato tempo perso; se l’ho fotografato vuol dire che quello è stato un tempo da ricordare, e se un tempo va ricordato vuol dire che ne è valso la pena vivere, e se ne è valsa la pena non è stato tempo perso.